La modernità di Bettega

Roberto Beccantini27 dicembre 2020

Quello che ha vinto, brilla negli almanacchi: un mare di roba. Quello che è stato, lo sappiamo: uno dei più grandi attaccanti italiani (e non solo) del Novecento. Quello che sarebbe diventato senza la tubercolosi del gennaio ‘72 e il crack al ginocchio sinistro del novembre ‘81, lo intuimmo: ancora più grande. I 70 anni di Roberto Bettega sono un invito, prezioso, a guardarci indietro senza paura di passare per rimbambiti. Juventino fin dalla culla e di scuola fin da bambino, nasce mediano sinistro e diventa punta, in un’epoca in cui i vivai avevano istruttori e non ripetitori.

Liedholm lo sgrezza a Varese, in serie B, e poi sempre Juventus, solo Juventus. Esordio, a Catania: subito a segno; allenatore, Armando Picchi, uno che ne fiutò presto il valore, disposto – per questo – a pagare il prezzo di una decina di partite in bianco. Alcuni incidenti di percorso – il «mazzo» di Agnolin nella burrasca di un derby, l’elemosina di un gol che avrebbe chiesto a Dal Fiume e Pin del Perugia, le relative squalifiche – l’hanno reso umano, lui così algido, così primario da telefilm americano, pronto a operare in area pur di non sembrare il paziente.

Numero nove e numero undici quando cominciò la scalata; numero sette nei pressi della vetta. Centravanti e ala, destro e sinistro. E tanta testa, in campo e fuori. Lodovico Maradei, che della «Gazzetta» è stato firma storica di rara competenza, giura di non ricordare, di Bettega, gol banali. Alcuni di rapina, sì, ma quasi tutti plastici, belli: come il tacco a San Siro, contro il Milan, che spinse Rocco a togliersi il cappello; come la schiacciata -sempre a San Siro e sempre contro il Milan – che inaugurò un romanzo, non una semplice rimonta; come la sgrullata in tuffo, su cross di Benetti, che fissò il 2-0 all’Inghilterra in una tappa cruciale verso il Mondiale del ‘78; come il tocco raffinato
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Natale a casa Milano

Roberto Beccantini23 dicembre 2020

Dopo quattordici turni, la classifica del campionato scorso era: Inter 37, Juventus 36, Lazio 30, Roma 28, Cagliari (una partita in meno) e Atalanta 25, Napoli 20, Milan 17.

Dopo quattordici turni, la classifica odierna è: Milan 34, Inter 33, Roma 27, Sassuolo 26, Napoli 25, Juventus 24, Atalanta 22, Lazio 21. Mancano all’appello Udinese-Atalanta e Juventus-Napoli.

La mia griglia d’agosto era: 1) Juventus, 2) Inter, 3) Atalanta, 4) Milan, 5) Napoli, 6) Roma, 7) Lazio. E’ il Natale di Milano e, probabilmente, l’anno. Se l’Inter tutta sostanza di Conte (al diavolo Eriksen, le rime baciate, tutta la cianfrusaglia che eccita i fusignanisti), ha centrato la settima vittoria di fila, il Milan è ormai da sedici partite che realizza almeno due gol. E’ stato concepito durante il lockdown, Pioli ha trovato i Re magi (nell’ordine: Ibra, Kjaer, Theo Hernandez) e li ha inseriti in un presepe che neppure a casa Cupiello avrebbero immaginato. E stasera, a San Siro, ne mancavano un fracco, non solo il Totem e il suo vice danese.

Ah, questi allenatori. La Lazio aveva rimontato due gol e stava dominando. Improvvisamente, Inzaghino ha tolto Immobile e Milinkovic-Savic, protagonisti assoluti del pareggio (assist del serbo, sinistro di Ciro). Al Milan non è parso vero. Ha (ri)cominciato a sporgersi, con Rebic ha sfiorato un paio di gol, e Theo, questo straordinario rugbista prestato al calcio, avete presente Gareth Bale?, l’ha trovato.

Della Juventus avevo scritto ieri. Cosa aggiungere se non che il tavolino proprio bene non ha portato? Madama è crollata in casa, e il Napoli dall’attacco decimato, per rimontare il Toro, la squadra più rimontabile d’Italia, ha avuto bisogno di un gioiello di Insigne. Un punto in tre partite, Gattuso: lottassero tutti come lui.

Complimenti a Sassuolo e Benevento. Buon Natale a tutti.

Tolti sei punti senza anestesia

Roberto Beccantini22 dicembre 2020

Allora: un 3-0 che ritorna 0-0, uno 0-0 che diventa 0-3. Morale: via sei punti. E senza anestesia. Comincio dal tavolino: l’unico rischio è che d’ora in poi, visto com’è andata al Napoli, la «region di stato» delle Asl possa mettere becco sui protocolli. Non si deve giocare a tutti i costi: vero, ma allora i Preziosi e i Maran del Genoa cosa erano, dei matti, degli assassini?

La Fiorentina, adesso. Anche a Parma, prima di annettersi la notte del Tardini, Madama aveva lasciato una palla-gol agli avversari. Parata da Buffon a Kucka. Questa volta, Vlahovic non l’ha perdonata. Vi raccomando il lancio di Ribéry, la dormita filosofica di Bonucci (una delle tante) e la resa di De Ligt. Non era la Juventus di sabato. Aveva cominciato molle, con le mosse di Pirlo facilmente lette da Prandelli. Poi, al 15’, l’entrataccia di Cuadrado su Castrovilli: giallo, Var, rosso. Corretto. Era andata meglio a De Roon (sempre su Cuadrado, a proposito), e, sempre con la Dea, a Chiesa, se parliamo di rigori, rispetto a Cristiano e Bernardeschi. E’ andrà ancora meglio a Borja Valero, graziato in avvio di ripresa.

Più ancora di La Penna, colpevole è stato l’incipit: sciagurato, lento, arrogante. A proposito di «posteri»: scritto in tempi non sospetti. Firenze non vinceva da otto gare, ha buttato via stampelle e bende; Biraghi, Ribéry, Caceres e Milenkovic l’hanno condotta oltre un ostacolo che gli allibratori, mica solo gli esperti, consideravano impervio. Pirlo è rimasto spiazzato. Dopo i bagliori con Atalanta e Parma, si ritrova nel buio più pesto. Ha tolto Ramsey e inserito Danilo. Ha avvicendato Morata con Bernardeschi. Non dico che la partita sia finita sull’uscita del regista occulto, resta il fatto che la superiorità numerica ha gasato la Viola e costretto i campioni a una moltiplicazione dei pani e dei pesi che in dieci, probabilmente, non sarebbe riuscita
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